Se ricca ed interessante è la storia e la cultura di questo territorio, non meno suggestiva è la sua “storia” geologica. Questa storia risale ai tempi dell’antico continente Pangea, un unico immenso continente circondato da un unico grande oceano detto Panthalassa.
Incuneato tra i due blocchi di questo super continente, quello settentrionale detto Laurasia che diede poi origine all’America settentrionale ed all’attuale Eurasia, e quello meridionale detto Gondwana, da cui nacquero l’America meridionale, l’Africa, l’Antartide e l’Australia, si incuneava una parte di questo oceano.
Con il progressivo allontanarsi dei due grandi blocchi, questa parte di mare si allarga di conseguenza fino a divenire un vero e proprio oceano chiamato dai geologi Mare Tetide, dal nome dell’antica divinità marina.
Durante gran parte dell’era Mesozoica (230-70 milioni di anni fa) sul fondo di questo mare, si accumularono nuovi sedimenti e si formarono nuove rocce.
Nelle acque basse lungo la costa e nelle insenature, sulle rocce sommerse vivevano miriadi di organismi, alghe e coralli in particolare, che diedero vita a barriere costituite dai loro scheletri calcarei, e che racchiudevano vaste lagune. L’accumularsi di sempre nuovi strati di organismi, diede luogo a delle piattaforme carbonatiche, spesse anche alcune migliaia di metri, di cui una delle più antiche è quella conosciuta come “laziale-abruzzese”. Ai bordi di tale piattaforma si accumularono invece i detriti creati dall’azione delle onde sulle scogliere e che si mescolarono a quelli portati dai fiumi, sabbie, argille marine, e trascinati al largo. Le rocce formatesi ai bordi della piattaforma laziale?abruzzese, chiamate “successione umbro marchigiano sabina” sono quelle che formano i rilievi dei Monti Sabini, e che contengono nel loro interno, a testimonianza di tale travagliata storia i resti fossili di organismi vissuti al bordo della piattaforma carbonatica, in particolare fossili di ammoniti e di foraminiferi. Quando alla fine dell’era Mesozoica la zolla continentale africana cessò di allontanarsi dall’Europa e iniziò un lento ma possente movimento di riavvicina mento, gli strati formatisi lungo la fascia meridionale della Tetide si sollevarono dal mare, corrugandosi, fratturandosi ed ammassandosi in una serie di rilievi, e tra questi si formò, insieme agli Appennini, anche la catena preappenninica dei Monti Sabini. Il susseguirsi di periodi di glaciazione, con conseguente diminuzione del livello marino, e di periodi intergiaciali con conseguenti innalzamenti dello stesso livello, hanno ulteriormente contribuito a modellare i rilievi così formatisi, dando loro quell’aspetto definitivo che ora possiamo ammirare.
La prima notizia dell’esistenza del castello di Monte San Giovanni è abbastanza tarda ed è contenuta in un contratto di vendita del 1240 conservato presso l’Archivio di Stato di Rieti. In questo anno infatti, anche se la data non è molto precisa, Giovanna de Radolfis, ultima discendente della consorteria del Camponeschi, i grandi colonizzatori delle aree in quota dei Monti Sabini, vendette a Napoleone Orsini i castelli di Poggio Perugino, di Monte San Giovanni, di Montenero e delle Macchie, oggi scomparso, insieme al giuspatronato su di un quarto della chiesa o abbazia di S. Maria de Monte, che era situata nei pressi di Castiglione di Cottanello.
Quando gli Orsini acquistarono tutta questa area l’insediamento era dunque ormai completato. I castelli di Monte San Giovanni, di Poggio Perugino e di Montenero esistono ancora; l’unico ad essere scomparso è il castello delle Macchie, ricordo dei forti diboscamenti allora compiuti, che era situato ai margini orientali dell’attuale territorio di Monte San Giovanni. L’opera di conquista agraria e di riorganizzazione territoriale era stata compiuta dai Camponeschi, una consorteria di cui conosciamo poco o nulla, ma che era stata particolarmente attiva tra X e XII secolo nelle aree in quota dei Monti Sabini, da Castiglione di Cottanello fino a Casaprota, per poi scomparire rapidamente senza lasciare molte tracce. Restano dunque nell’ombra, almeno per le fonti scritte, i dettagli della fondazione di Monte San Giovanni e del castello delle Macchie, anche se non sembra inverosimile fissarne la nascita in periodi non molto lontani da quelli dei castelli vicini come Salisano, fondato intorno al 953?961; Mompeo, circa 991; Montenero, 1038?1085; Muscini, oggi scomparso, circa 1085.
A questo periodo di forte spinta verso la conquista di nuove terre risalgono con molta probabilità i terrazzamenti che impedivano il dilavamento dei terreni e che ancor oggi caratterizzano il paesaggio della zona, come un retaggio del passato costituisce anche la Mola, il vecchio mulino mosso dalla forza idraulica sul torrente Canera.
Monte San Giovanni divenne gradualmente il centro principale degli Orsini in questa zona. In questo periodo furono anche prosciugati numerosi laghetti che punteggiavano le vallate nei pressi del castello delle Macchie e della chiesa di S. Sebastiano, con indubbio sviluppo delle aree coltivate. Poco alla volta la potente famiglia baronale romana estese il suo dominio ad un gran numero di altri castelli, come ricorda il testamento redatto nel 1476 da Pierangelo Orsini, signore di Foglia, di Gavignano, di Mompeo, di Montenero, di Tancia, di Monte San Giovanni, di Casaprota, di Collelungo, dei castelli abbandonati di Giulianello e di Montefalco, della metà di Monteleone, di Ornaro e di Torricella, e, nella valle del Turano, di Bulgaretta, dei castelli diruti di Pietraballa e di Rocca della Salce e di tre quarti di Collepiccolo, oggi Colle di Tora.
Monte San Giovanni rimase in possesso degli Orsini fino agli inizi del XVII secolo, quando il castello tornò alla camera apostolica, che nella seconda metà del Settecento ne concesse in enfiteusi i beni camerali dapprima ad Adriano Antoniazzi Tomassi e successivamente ad Antonio Flavi.
Un altro dei segni caratterizzanti del medioevo è la presenza di un numero molto elevato di edifici religiosi. La chiesa di S. Sebastiano de Laculo è la più antica chiesa del territorio di Monte S. Giovanni ad essere ricordata. La prima menzione è infatti del 1182, quando era già una pieve dipendente dalla diocesi di Rieti. Il numero degli edifici sacri era però ben più consistente nel medioevo. In un registro delle chiese della diocesi reatina redatto nel 1398, oltre a S. Sebastiano, sono ricordate quelle di S. Giovanni, di S. Pietro, di S. Vittoria e di S. Angelo.
Nel tempo molte altre chiese o cappelle presenti nel territorio di castelli o di villaggi abbandonati, senza più cura d’anime quindi, ed in molti casi diroccate, furono unite alla parrocchia di S. Giovanni, divenuta progressivamente la più importante del territorio dipendente dal vescovo di Rieti. Tra queste possono essere ricordate S. Vittorino di Vaccareccia, S. Bartolomeo di Monticchio, S. Nicola di Finocchiaro, S. Maria del Casale, S. Lorenzo e S. Salvatore delle Macchie, ad indicare un passato caratterizzato da una vita religiosa e civile molto intensa.
Un’altra importante pieve, dipendente a sua volta dalla diocesi di Sabina e contigua a S. Giovanni, era S. Maria di Montenero dalla quale dipendevano le cappelle di S. Pancrazio de Septerano, nota già nell’alto medioevo, di S. Giovanni de Leone, di S. Maria de Colle, di S. Simeone de Magalainis, che aveva cura d’anime, di S. Giustino de Collibus, di S. Savino de Podio Oliveti, di S. Paolo de Valeris, di S. Eligio de Driano, di S. Eleuterio de Muscino e di S. Andrea de Pazo.
Testimonianze dell’Età del bronzo
Unico punto di passaggio naturale diretto tra il bacino della conca reatina e quello della valle del Tevere è il valico di Tancia (m. 802 s.l.m.) ubicato nel tratto meridionale dei Monti Sabini, tra le pendici del massiccio omonimo e il Monte Ode.
L’area, sulla quale sorge l’Osteria di Tancia, appare di rilevante interesse naturalistico e paesaggistico ed è nota dal punto di vista storico e archeologico sia per la menzione, nel cartulario farfense, di un qualdus Tancies tra l’VIII e il X secolo e la presenza di un castrum (castellum e rocca), del quale rimangono resti di torri e fortificazioni a quota 837 e 746 “Torraccia”, sia per la vicinanza della Grotta di S. Michele.
Dal punto di vista morfologico, la zona si presenta come una sorta di altipiano intermontano attraversato in senso N-S da una linea spartiacque poco accentuata (Monticchio), chiuso su tre lati, a nord dal Colle Sterparo e ad ovest dal Colle S. Erasmo fra i quali trae origine la stretta e fonda valle fluviale del Galantina affluente del Tevere, a sud dal Monte Ode, mentre a est è aperto verso il bacino idrografico del Farfa al quale digrada con una serie di incisioni fluviali di fossi confluenti (Fosso Tancia, Fosso Figorone).
I requisiti topografici che hanno rappresentato nell’alto medioevo per Farfa un evidente interesse strategico di controllo delle vie più dirette dal Farfa e dal Tevere fino a Rieti, sono in parte probabilmente gli stessi che hanno determinato le scelte insediative del sito in epoca preistorica.
Nel luogo transitavano almeno quattro itinerari principali da cui si dipartivano altri secondari: uno diretto a Rieti attraverso la Val Canera, due in direzione della media valle del Farfa ed uno verso la valle del Tevere. Si tratta per lo più di percorsi di mezzacosta nella zona montuosa e di crinale nella zona collinare, oggi ridotti a semplici mulattiere talvolta non più transitabili perché abbandonate.
Nell’ambito del sito preistorico sono stati individuati finora vari punti di affioramento di materiale ceramico d’impasto: 1 – Trincea stradale sotto quota 837 (taglio sotto il piano stradale); 2 – Trincea stradale in loc. Fonte Onnella (taglio della scarpata); 3, 4 – Escavazione e sbancamento a nord della chiesa di S. Angelo; 5 – Grotticella.
Il terzo punto, in posizione intermedia rispetto ai precedenti ha restituito il maggior numero di frammenti ed è topograficamente il più significativo. E’ ubicato a valle di una serie di terrazzi digradanti a partire dalla base della parete rocciosa, regolarizzati artificialmente con una sorta di muretti a secco e coperti da fitta vegetazione a lecci, aceri e ginepri. Nel 1983 un’escavazione per ricerca di acqua, consistente nel l’allargamento e svuotamento di un crepaccio, ha portato alla luce una grande quantità di frammenti ceramici, tra cui alcuni pertinenti a ciotole e tazze con decorazione dello stile appenninico, anse pertinenti a situle, un manico nastriforme con terminazione a rotolo, un frammento di macina in pietra lavica e alcuni reperti faunistici, attribuibili cronologicamente all’età del Bronzo medio (XVI-XIV sec. a.C.).
Si tratta di evidenze riferibili ad un vasto complesso insediativo costituto da abitati di capanne distribuite su terrazzi, in parte regolarizzati artificialmente, ancor’oggi distinguibili, e da probabili luoghi di sepoltura e di culto indiziati dalla presenza di grotticelle e inghiottitoi nonché dalla famosa grotta di S. Michele.
Ulteriori evidenze insediative della media età del bronzo sono venute alla luce nel 1986-87 in località Morrone, in seguito alla costruzione del campo sportivo di Monte S. Giovanni. Il sito si pone poco al disotto della sommità di un modesto rilievo collinare (Colle Casetto) che funge da spartiacque tra la val Canera (Conca Reatina) a nord e la valle del Farfa (Sabina tiberina) a sud, interposto tra il Monte Tancia ad ovest e il Monte Vecchio ad est.
Tra i reperti raccolti si segnalano frammenti di anse e di ciotole con decorazione “appenninica”.
Caratteristica comune ai due insediamenti è la dislocazione topografica lungo le vie di crinale e in prossimità di valichi.
Il paesaggio non doveva essere molto diverso da quello attuale, con campi coltivati e recinti per il bestiame di allevamento non lontano dalle abitazioni.
Nelle successive fasi, recente e finale, dell’età del bronzo (XIII – X sec. a.C.) la frequentazione dei siti pare già estinta, mentre l’interesse delle comunità, per il concorso di fattori sociali, economici, ambientali e climatici è rivolto verso altri percorsi e luoghi con requisiti geo-topografici diversi, come la Conca reatina dove si assiste ad una concentrazione e crescita del popolamento soprattutto nell’età del bronzo finale.
Il territorio del Monte Tancia assume dunque una particolare rilevanza archeologica e offre fruttuose prospettive per ricerche future, ma solo uno scavo potrà far luce più da vicino sulle fasi di sviluppo e sulla struttura dell’insediamento, dalla tipologia delle capanne e organizzazione degli spazi circostanti, ai vari aspetti della cultura materiale e degli usi funerari.
In attesa della realizzazione di un museo locale, i reperti archeologici finora raccolti sono stati depositati, e in parte esposti, al Museo Civico di Magliano Sabina.
La Grotta di San Michele
Sulle pendici occidentali del monte Tancia, in una parete di roccia calcarea a picco, si apre una grotta naturale. In uno dei suoi anfratti, fino a due decenni fa quando fu asportata, si poteva osservare nell’oscurità una figura femminile seduta, scolpita rozzamente in una stalattite.
Molte sono state le suggestioni che questa immagine ha suscitato nel tempo, lasciando ampi varchi all’immaginazione. Indubbiamente nella rozza statuetta andava riconosciuta una dea madre, una divinità quasi certamente dell’età del ferro, che può essere collegata a culti sulla fertilità e sulla fecondità, ampiamente diffusi in quel periodo anche in aree contermini. Una immagine simile è venerata, ad esempio sempre in Sabina, alla Madonna del Monte a Borbona.
La statuetta, alta 44 cm e larga tra i 9 ed i 12 cm, è stata spesso identificata con la dea Vacuna, una divinità caratteristica dei Sabini, legata al culto dei boschi e delle acque e che ha lasciato molte tracce sia nelle fonti letterarie, sia nelle epigrafi, sia nei toponimi. E’ possibile, anche se va precisato che l’identificazione non è certa; ma è dall’alto medioevo, grazie alla particolare ricchezza delle fonti farfensi, che la grotta del Tancia assume un ruolo preminente nella storia della Sabina.
Secondo la leggenda agli inizi del IV secolo d.C. un serpente pestifero si era insediato nella grotta e da li insidiava la vita degli abitanti del luogo. Dio però, sollecitato dalle loro preghiere, decise di porre fine alla sua opera. Testimone del prodigio fu papa Silvestro, rifugiato sul monte Soratte. Una notte il pontefice, mentre era raccolto in preghiera, vide scendere dal cielo due angeli seguiti da tuoni e da fulmini che illuminavano di luce corrusca il monte Tancia ed atterrivano il drago, che si rifugiò in uno dei recessi dell’antro, ma gli angeli non gli diedero tregua e lo cacciarono dal suo rifugio. Papa Silvestro decise allora di dedicare la grotta a S. Michele, dove si recò l’8 maggio, accompagnato da una gran folla di fedeli.
La leggenda evoca ovviamente la sconfitta del paganesimo e dell’idolatria, non a caso gli accadimenti sono collocati all’epoca di papa Silvestro (314-335), che segnò l’affermarsi ed il riconoscimento ufficiale del cristianesimo.
Il culto di S. Michele ebbe notevole diffusione in Italia centro-meridionale in età longobarda, basti ricordare il celeberrimo santuario del Gargano, agevolato dalla rappresentazione guerresca del santo. Anche il nostro santuario in VIII secolo appartenne al demanio spoletino, fin quando lo stesso duca Ildeprando, tra il 773 ed 775, lo donò a Farfa con i boschi e le faggete intorno ad esso.
Il santuario di S. Michele, con il monastero che gli sorse poi intorno, divenne progressivamente un punto di forte gravitazione non soltanto religiosa, ma anche sociale ed economica dell’intera area. Numerose sono le donazioni pie ricordate dalle fonti farfensi che attestano con chiarezza la sempre crescente importanza che la grotta di S. Michele venne man mano acquisendo.
Non a caso nel 1051 scoppiò una violenta controversia tra l’abate di Farfa Berardo I ed il vescovo di Sabina Giovanni sul possesso del santuario, concesso a quest’ultimo dall’abate Ugo I. Il vescovo Giovanni, armi alla mano, per riaffermare i suoi diritti su S. Michele ne distrusse l’altare e portò via le sacre reliquie. Sulla via del ritorno verso l’episcopato, nonostante il cielo sereno, scoppiò una violentissima tempesta frammista di pioggia, di grandine e di folgori.
Il povero vescovo, per cercare di ripararsi, si allontanò dal sentiero e qui accadde un miracolo, dato che nel luogo dove venivano deposte le reliquie non piovve né grandinò. Cessata la tempesta il vescovo Giovanni se ne tornò all’episcopio fortemente intimorito. Qui però la stessa notte fu colpito da una emiparesi.
Venuto a conoscenza di quanto era accaduto, l’abate Berardo I si precipitò al S. Michele accompagnato da un vescovo straniero, ospite a Farfa in quei periodo, e da uno stuolo di armati, dove programmò una congrua risistemazione dell’altare e vi fece collocare nuove reliquie.
Il semiparalizzato vescovo Giovanni, in parte pentito per quanto aveva fatto, tornò alla grotta riportando le reliquie asportate e ricollocandole al loro posto, salvo però levare contro Berardo I aspre lagnanze in un sinodo, rivolte poi al papa Leone IX, che dette invece ragione all’abate di Farfa.
La questione ovviamente non si sopì di certo e fu ripresa più volte con alterne vicende, che mano a mano scemarono di intensità, in parallelo con la perdita di importanza, da un punto di vista economico e sociale, del santuario di S. Michele, che pure rimase nel tempo radicato nella memoria storica locale, meta di culti cristiani, ma anche di pratiche magiche, celebrate di norma il venerdì dopo il plenilunio.
Oggi la grotta di S. Michele conserva ancora tracce consistenti del suo passato. Salendo lungo la scalinata malcerta si accede finalmente alla grotta, lasciando in basso i resti delle strutture del monastero che ospitava i monaci. Entrando si nota subito l’altare sovrastato dal ciborio costituito da due colonne, dai rispettivi capitelli che sostengono la copertura a timpano.
Il ciborio, voltato nella parte inferiore, è rivestito da due strati di affreschi, di cui l’ultimo e meno pregevole è una ridipintura del precedente. Sull’archivolto del ciborio il busto del Cristo è circondato dai simboli apocalittici dei quattro evangelisti, mentre sul fondo della lunetta, al di sopra dell’altare si intravvede l’immagine della Madonna con il Bambino; l’Agnus Dei è affrescato invece sulla fronte del ciborio, con ai lati probabili immagini di profeti che si inchinano reverenti, pur se gli storici dell’arte non sono troppo in sintonia sulla ricostruzione dell’iconografia di S. Michele.
Sia l’altare che il ciborio e gli affreschi dello strato inferiore possono essere ragionevolmente datati alla seconda metà dell’XI secolo, non a caso le fonti farfensi ricordano l’altare che Berardo i progettò di far ricostruire dopo la profanazione del vescovo Giovanni.
Sulla parete della grotta, verso la finestra che illumina fiocamente l’ambiente, ancora affreschi bassomedievali una Vergine Maria con il Putto, un S. Michele splendente nella sua corazza dorata.
Penetrando nell’oscurità sulla sinistra della grotta si apre uno stretto e basso speco sul fondo del quale, fino ad ventennio fa alla luce delle torce elettriche, moderne fiaccole, si poteva scorgere l’immagine della divinità pagana, ricordo di millenni di storia.